Stupisce lo stupore

Stupisce lo stupore, scusate il gioco di parole, di chi soltanto oggi si rende conto del fallimento delle “politiche” unilaterali in Afghanistan.

Chiunque abbia osservato con occhi liberi la situazione negli ultimi 20 anni, ha sempre saputo e detto che sarebbe finita con una disfatta.

Ed in fin dei conti non ci voleva nemmeno particolare acume se consideriamo che, nonostante l’immane impiego di risorse, la coalizione NATO non è mai riuscita a mettere in sicurezza altro che le maggiori città.

Quasi tutto il resto è di fatto sempre rimasto, magari in modo silente, sotto il controllo dei Talebani, espressione della maggioranza etnica dell’Afghanistan, i pashtun.

Così come era evidente che l’esercito afghano, impreparato, demotivato e divorato dalla corruzione dilagante, avrebbe cambiato casacca senza nemmeno combattere.
È inutile oggi parlare tardivamente di fallimento della missione NATO; dovremmo parlare piuttosto dell’errore di avviare una simile missione senza averne chiari gli obbiettivi.

Una missione che non doveva essere avviata per milioni di ragioni tra le quali la più evidente è che non esistono casi nella storia in cui una guerra abbia portato direttamente a democrazia e pace, semmai l’opposto.

Fatto quell’errore capitale ne è seguito uno ancora più grande, ovvero non utilizzare questi anni di “boots on the ground” per facilitare un vero percorso politico di unità nazionale che coinvolgesse l’intero Paese, così come invece è stato fatto in Libia.

Si è scelto di imporre un Governo mai realmente riconosciuto e difenderlo con le armi dalla sua stessa gente anziché invogliarlo a creare un reale consenso popolare.
Un Governo che, onestamente, ha fallito in tutto e per tutto la sua linea. Non è mistero, infatti, che la stessa popolazione si sia sempre divisa in due tra chi vedeva nell’Occidente un occupante e chi un liberatore, province remote contro città principali.

Quando nel 2013, nel primo atto parlamentare del MoVimento 5 Stelle, chiedemmo il ritiro graduale delle truppe dall’Afghanistan, lo facemmo con queste consapevolezze e con l’indicazione di destinare le immani risorse che stavamo destinando alla missione militare a progetti di sviluppo socio-economico ed empowerment femminile.
A maggior ragione dopo l’uccisione di Osama Bin Laden nel 2011, un ritiro ordinato e graduale delle nostre truppe avrebbe potuto (e dovuto) lasciare il passo a percorsi politici e sociali.

Oggi possiamo solo chiederci frettolosamente come limitare i danni, come evitare il “Medioevo”, come tutelare donne, bambini (spose e soldati), come ripartire da quel poco che è rimasto.

È probabile che i Talebani non vorranno fare lo stesso errore di quando governarono l’Afghanistan dal 1996 al 2001.
Verosimilmente cercheranno legittimazione internazionale e potremmo quindi avere uno spiraglio per cercare una mediazione sui diritti, sui valori, sulla forma di governo e le libertà.

Dobbiamo anche mettere in conto, già da subito, la grande fuga dal Paese di chi non si sente più tutelato, prevedendo forme d’accoglienza europea facilitate e veloci e di cooperazione con i paesi confinanti con l’Afghanistan.

Lo dobbiamo a chiunque fugga dalla guerra, figuriamoci a coloro ai quali l’abbiamo portata noi stessi con i nostri errori.

Infine, scusatemi, trovo patetico lo scontro politico tra repubblicani e democratici a stelle e strisce e i loro surrogati europei ed in particolare italiani dal momento che nessuno, e li abbiamo avuti tutti al governo, si è mai opposto allo status quo in questi decenni.

Nessuno oltreoceano ha colto la necessità di salvare il salvabile negli ultimi mesi quando, forse, una forzatura sul Governo Ghani avrebbe potuto avviare una transizione pacifica e ordinata così che, essendosi ormai palesata la sconfitta, avremmo avuto quantomeno l’illusione di un power sharing.

Ma oggi è tardi per le chiacchiere. Oggi servono solo silenzio e progetti precisi.

Manlio Di Stefano